Talvolta succede che i genitori rilevino segnali preoccupanti nel proprio figlio/a che inducono a ritenere utile un intervento psicoterapico o una consultazione psicologica. Accade, però, frequentemente che i figli, soprattutto nell’età dell’adolescenza o nella prima età adulta, rifiutino di accettare l’esistenza di un problema e, di conseguenza, di consultare uno specialista. Questo accade spesso nell’ambito dei disordini alimentari (anoressia, bulimia, vomiting e binge-eating), in cui la figlia nega di avere alcun tipo di problema con il cibo, ma anche relativamente a problemi di tipo fobico-ossessivo (ansia, compulsioni, fobie, etc.), relazionale (difficoltà a relazionarsi con i pari, aggressività verso i familiari, etc.) o depressivo. Possiamo considerare in questa categoria anche tutti i casi di difficoltà scolastiche o relazionali con i genitori che, sebbene meno allarmanti da un punto di vista diagnostico, sono comunque causa di sofferenza e disagio in famiglia.

Quando questo si verifica, il terapeuta è solito fare un primo incontro con i genitori e valutare con loro se il problema richieda un intervento psicoterapico e, se si, di quale tipo. Lo specialista potrà dare indicazioni concrete ai genitori su come comportarsi con il figlio/a che manifesta il problema, ricorrendo in tal modo ad una forma di terapia indiretta, oppure dare indicazioni e suggerimenti su come cercare di coinvolgere il figlio/a nella terapia.

Accade spesso che un intervento inizialmente indiretto, condotto solo attraverso i genitori, si trasformi in un secondo momento in un intervento misto, ovvero condotto sui genitori e sul figlio, il quale appare più disposto ad entrare in terapia sulla scia dei cambiamenti messi in atto dai genitori.